Come il bisonte dava la vita alle tribù indiane del Nord America, così il dorso di grandi animali erbivori africani offrono attualmente ad alcune specie di uccello, cibo, rifugio e materiale per la costruzione dei loro nidi.
Mentre con le pelli dei bisonti ricoperte di peli gli indiani ne ricavavano mantelli e coperte e con la pelle rasata invece costruivano tende, scudi, abiti e calzature, gli uccelli della specie Buphagus africanus (bufaga) prelevano dal dorso di zebre, giraffe, bufali, ciuffi di peli per rivestire, insieme alle fibre vegetali, i loro nidi situati all’interno delle cavità naturali nel tronco di un albero.
Mentre la carne del bisonte rappresentava una delle principali fonti di cibo che i nativi americani consumavano al momento o previa essiccazione al sole, le zecche, i pidocchi, le larve di ditteri e le sanguisughe presenti sulla cute dei mammiferi rappresentano per le bufaghe la loro principale fonte alimentare insieme al sangue che inevitabilmente fuoriesce dalle piccole ferite prodotte dai loro tozzi becchi colorati di giallo con la punta rossa.
Mentre del bisonte morto nulla veniva sprecato (con la coda facevano scaccia mosche, con lo stomaco facevano secchi dell’acqua, con le ossa costruivano utensili e punte per le frecce, con gli zoccoli ottenevano una speciale colla e tanto altro), così il dorso degli erbivori africani viene molto di frequente utilizzato dalle bufaghe come sito di corteggiamento e accoppiamento.
Una delle più strane specie di falene presenti sul nostro pianeta è senz’altro la Creatonotos gangis.
Il maschio di questo insetto è provvisto di alcune curiose strutture, somiglianti a dei tentacoli, chiamate coremata. Esse sono situate in alcuni segmenti addominali, in posizione ventro-laterale, degli esemplari maschi e contengono peli ghiandolari in grado di rilasciare feromoni sessuali con lo scopo di attirare l’altro sesso.
La dimensione di questi organi è condizionata dalla dieta che la falena conduce quando è ancora allo stato di bruco.
Esistono in natura molteplici esempi di mimetismo tra gli esseri viventi, dove alcune specie cercano di imitare altre specie con lo scopo di ottenerne un vantaggio, che può concretizzarsi nel fingersi pericoloso agli occhi dei predatori, come il caso di alcuni ditteri sirfidi che imitano nell’aspetto gli imenotteri aculeati come le vespe, oppure di alcune orchidee che presentano fiori dall’aspetto molto somigliante alla femmina di alcuni insetti con lo scopo di attirare gli esemplari maschi di quest’ultimi e favorire così l’impollinazione.
Si potrebbero fare tantissimi altri esempi, come quello a dir poco creativo della farfalla sud americana appartenente alla specie Dynastor darius, i cui bruchi di colore verde intenso con capo completamente rosso, prima di diventare adulti e quindi farfalle, si trasformano in crisalidi, fase immobile del loro ciclo biologico particolarmente vulnerabile alla predazione, se non fosse per una strategia di mimetismo davvero sorprendente. Nello specifico, la crisalide di circa 8 centimetri di lunghezza presenta un aspetto esteriore perfettamente somigliante, sia nel colore che in alcuni dettagli morfologici (gli occhi dalla pupilla verticale e la fila di scaglie) ad un serpente.
L’uomo non è l’unica specie animale ad attribuire grande importanza all’igiene personale. Molti primati trascorrono gran parte del loro tempo a ripulirsi il corpo reciprocamente, liberandolo dai parassiti e da schifezze varie che vanno ad insediarsi in punti difficilmente raggiungibili dall’individuo solitario; tale pratica prende il nome di grooming, che di per sé rappresenta anche una modalità di comportamento che consente agli individui della stessa specie di instaurare tra loro salde relazioni sociali.
Tuttavia, il grooming espone gli individui che lo praticano ad elevati rischi di infezione soprattutto quando le loro cure sono orientate in aree particolarmente appetitose per i parassiti, come la zona perianale. Ciò si verifica più frequentemente in alcune specie di primati come il coloratissimo mandrillo (Mandrillus sphinx) i cui esemplari presentano la zona perianale ed il viso completamente scoperte e vivacemente colorate, caratteristiche morfologiche che contribuiscono a determinare lo status di soggetto dominate.
Alcuni studi dimostrano che i mandrilli in linea generale adottano un approccio molto selettivo a questa pratica, orientando le loro cure solo in alcune specifiche aree considerate più “sicure” nei confronti di una potenziale infezione. Eccezionalmente, nei rapporti stretti di parentela, ad esempio tra madre e figlia o tra sorelle, tale prudenza viene meno e gli esemplari danno tutto se stesso nell’offrire un servizio completo di pulizia.
Lo scarafaggio, o blatta, non è di certo un animale che riscuote un granché di fascino, ma il “semplice” essere sopravvissuto all’evento catastrofico che circa 65 milioni di anni fa ha causato l’estinzione di quasi tutti i dinosauri, lo rende decisamente più che affascinante.
Nel corso della loro evoluzione, questi insetti non hanno subito sostanziali modifiche a livello morfologico, proprio perché sono perfetti così come sono e questa loro perfezione consente loro di superare condizioni ambientali estreme, come quelle che si sono verificate a seguito dell’impatto del meteorite Chicxulub sul nostro pianeta.
Grazie alla forma appiattita del loro corpo, si suppone che le blatte siano riuscite a rifugiarsi in spazi molto ristretti e angusti, come le crepe del suolo, sopportando in questo modo i forti sbalzi termici che si vennero a creare con l’impatto del meteorite. Infatti, ad un rapidissimo aumento delle temperature globali seguì un crollo delle stesse a causa del sollevamento di immense quantità di polveri che, rimanendo sospese nell’atmosfera, affievolirono la luce del sole.
La forma del corpo di questa categoria di insetti non è l’unica “carta vincente” per la loro sopravvivenza, anche l’estrema variabilità del loro regime alimentare onnivoro, xilofago (che si nutrono di legno), necrofago (che si nutrono di animali morti) e coprofago (che si nutrono di escrementi), unitamente alla deposizione delle uova all’interno di strutture protettive e molto resistenti, simili ad astucci, chiamate ooteche, contribuiscono senz’altro ad elevare le blatte al rango di veri dominatori del pianeta.
Cosa hanno in comune due animali completamente differenti sotto il profilo ecologico come l’orso polare e le stelle marine? Ebbene, potrebbe apparire assurdo ma entrambe queste specie dell’Artico condividono la stessa posizione di predatori apicali. Con tale termine si fa riferimento a specie che nelle catene alimentari si alimentano di tutto e non vengono mangiati da nessuno.
Siamo abituati a vedere l’orso polare come il più grande predatore dell’Artico, questo perché si da troppa importanza a come funzionano le reti trofiche al di sopra della superficie dell’oceano e non abbastanza a ciò che accade nelle acque o sui fondali marini.
Un gruppo di scienziati dell’Università di Manitoba, in Canada, a seguito di ricerche nelle acque intorno a Southampton Island, con lo scopo di ricostruire le reti trofiche delle acque dell'Artico, hanno confermato il ruolo dell'orso polare come predatore apicale, ma allo stesso tempo hanno dimostrato che anche alcune specie di stelle marine, appartenenti alla famiglia Pterasteridae, si trovano in cima a tutte le catene alimentari delle quali fanno parte (in ogni ecosistema possono essere presenti più catene alimentari e spesso accade che una singola specie può rientrare in più di una di queste). Infatti la dieta di questi echinodermi è composta da molluschi bivalvi, cetrioli di mare e spugne, tutti gruppi che a loro volta sono predatori di qualcos'altro, ma loro non hanno predatori da temere.
In Costa Rica esiste un ragno che per fuggire da un predatore è capace di tuffarsi sott’acqua e di rimanerci per un tempo più lungo di quello che ci aspetterebbe da un animale che non è affatto equipaggiato ad immergersi; il suo nome scientifico è Trechalea extensa.
In genere gli animali che vivono sulla terraferma difficilmente si avventurano in ambiente acquatico se non obbligati a seguito di una minaccia e a meno che non siano dotati di particolari adattamenti che consentono loro di sopravvivere in un ambiente completamente diverso, caratterizzato dall’assenza di ossigeno “libero” e facile da respirare.
Questo ragno tropicale quando è costretto ad immergersi si ricopre di una sottile pellicola d’aria che rimane aderente al corpo per mezzo di peli fortemente idrorepellenti che ne sostengono la struttura. Scopo della “bolla”, che si viene così a creare, è quello di trattenere aria sufficiente da consentire al ragno di respirare sott’acqua e di proteggersi dalle escursioni termiche, tenendolo relativamente caldo per tutta la durata dell’immersione.
Sapevate che esistono delle rane capaci di rimanere visibili durante il giorno e invisibili quando dormono, rendendo il loro corpo praticamente trasparente?
Ebbene una delle specie emblema di questa eccezionale capacità è la rana vetro (Hyalinobatrachium fleischmanni).
Gli esemplari di questa specie non diventano interamente trasparenti; Il loro dorso è di colore verde brillante, mentre il ventre ha un colorito rossastro dato dalla circolazione sanguigna che diventa trasparente di notte, mentre dormono, che permette di vedere tutti gli organi interni dell’animale.
Questa strategia difensiva, grazie alla quale la rana vetro riesce a non farsi individuare facilmente dai predatori durante la notte, è reso possibile da un meccanismo fisiologico che ha luogo durante la fase di preparazione al sonno e che consiste nel filtrare tutta l’emoglobina presente nel sangue accumulandola nel fegato; in questo modo la loro pelle diventa completamente trasparente. Al risveglio, i globuli rossi ritornano in circolo e la pelle in corrispondenza del ventre riprende il suo colore naturale, rendendo in questo modo gli esemplari di questa specie nuovamente visibili.
I pipistrelli per orientarsi emettono dei suoni ad altissima frequenza, non udibili dall’orecchio umano, e ascoltano gli echi che rimbalzano da diversi oggetti riuscendo in questo modo a localizzare, identificare e stimare la distanza rispetto ad essi; in altre parole, ricostruiscono l’ambiente intorno a loro.
Sono soliti emettere anche alcuni versi, da noi potenzialmente udibili, che ricordano il cosiddetto “growl” di alcuni cantanti metal, una sorta di piccolo ruggito a bassissima frequenza. Lo dimostrano alcuni studi condotti su alcune specie di pipistrelli, tra cui il Vespertilio di Daubenton (Myotis daubentonii), grazie ai quali è stato possibile accertare le capacità vocali di questi mammiferi.
Nello specifico è stato possibile analizzare la conformazione della loro laringe e quindi delle corde vocali che risultavano distinte in due tipologie: un paio di corde “vere”, che utilizzano per l’emissione dei suoni ad altissima frequenza, e un paio di “false” corde, disposte superiormente alle prime, che consentono loro di emettere proprio questo "ruggito" a bassa frequenza.
In definitiva, il vespertilio ha dimostrato di avere un'estensione vocale di sette ottave: in media noi esseri umani ci attestiamo sulle tre o quattro, e solo alcuni fenomeni del canto raggiungono le cinque.
Fonte bibliografica: Focus Ambiente
L’abbinamento dei colori giallo e nero viene utilizzato per dare risalto ad un pericolo da aggirare, come nel caso della segnaletica di sicurezza sui posti di lavoro per evidenziare ad esempio il pericolo di caduta con dislivello, la presenza di materiale radioattivo o di carrelli in movimentazione.
Ancora una volta, la natura ha ispirato l’uomo!
La colorazione nel mondo animale svolge un ruolo molto importante in quanto rappresenta una forma di comunicazione, come per l’appunto l’alternanza di colori sgargianti quali il giallo e nero tipico delle livree di alcune specie animali come alcune rane tropicali velenose, oppure di insetti dotati di pungiglioni come le vespe e le api, la cui funzione è quella di suscitare allarme nei confronti di potenziali predatori o minacce; in altre parole è come se avvertissero dicendo: “stia attento, si tenga lontano perché posso essere molto pericoloso…”
Ci sono poi delle specie che approfittano di questa strategia comunicativa per trarne un loro vantaggio imitando proprio le suddette specie, assumendo la loro stessa tipica colorazione a strisce nere e gialle e fingersi così di essere pericolose agli occhi dei loro predatori.
I Sirfidi sono insetti appartenenti allo stesso ordine delle comuni mosche (ditteri); alcune specie di questa numerosa famiglia sono straordinari imitatori delle aculeate vespe e api, alle quali cercano di assomigliare nell’aspetto per tenere lontane eventuali minacce durante il loro girovagare tra le piante alla ricerca di nettare, polline e sostanze zuccherine. Fingono così di essere pericolose quando in realtà non lo sono affatto perché non pungono.
Non si può non rimanere affascinati dalla bellezza e dal candore dei fiori di Loto, piante acquatiche apprezzate in tutto il mondo per i loro imponenti e colorati fiori, le cui specie più diffuse sono il Loto sacro (Nelumbo nucifera), originario dell’Asia e dell’Australia e il Loto americano (Nelumbo lutea), originario invece dell’America centro-meridionale.
La particolarità di queste piante, a crescita rapida e rinvenibili solitamente nelle acque stagnanti, risiede nelle loro ampie foglie caratterizzate da una particolare struttura superficiale che le rende completamente idrofobiche, per cui l’acqua “non le bagna” ma scivola via rapidamente.
Con le nanotecnologie si cerca di riprodurre esattamente questa proprietà per alcuni materiali quali tessuti e vernici, alla quale viene attribuito l'appellativo di “effetto loto”.
Se solo provassimo anche noi, nel nostro piccolo, ad imparare a mettere in pratica “l’effetto loto” nella gestione di alcune situazioni che ci riguardano più da vicino e ci turbano e che magari sono anche apparentemente insignificanti o di scarsa importanza, riusciremmo ad affrontare e superare con più fluidità certi ostacoli della vita; in altre parole provando anche noi a “farci scivolare le cose di dosso”, proprio come fanno le foglie il Loto con l’acqua, eviteremmo senz’altro di cadere in loop ossessivi che non ci consentirebbero di svincolarci da quei pensieri, spesso associati a paure angoscianti, a cui dovremmo assolutamente porre un freno.
La capacità di emettere segnali luminosi è una prerogativa di molti organismi animali in modo particolare di invertebrati e ne sono un esempio le ben note lucciole (insetti), che utilizzano la bioluminescenza per attrarre i partner, o alcune specie di meduse come la nordamericana medusa cristallo (Aequorea victoria) che a seguito di stimoli tattili è in grado di emettere una luce blu o verde, regalando spettacoli mozzafiato quando formano di notte branchi composti da numerosi esemplari lungo le coste.
Esistono poi anche alcuni millepiedi “fosforescenti” che brillano di verde al buio come quelli appartenenti al genere Motyxia. Alcuni ricercatori ritengono che tale bioluminescenza sia riconducibile ad una strategia di difesa con lo scopo di evitare attacchi da parte di predatori. Proprio come tutti gli altri millepiedi anche i membri di questo genere sono vegetariani e si nutrono principalmente di piante in decomposizione, ragion per cui vivono prevalentemente nel sottosuolo e durante la notte risalgono in superficie per mangiare e accoppiarsi.
Lo Yak (Bos grunniens) è un bovide delle steppe desolate del Kashmir (India), fino a quote di 6.000 m, ed il suo areale di diffusione si estende a est fino al Tibet e al Qinghai (Cina).
Presenta il mantello di colore nero-brunastro con lunghi peli arruffati su ciascun lato che quasi raggiungono il terreno. Il pelo più interno folto e soffice, composto di peli fittamente infeltriti, lo protegge dal freddo estremo. Le spalle sono alte e con una evidente gobba. Il corpo può essere lungo fino a 3,3 metri e pesare 525 kg.
Le femmine e i giovani si riuniscono in grandi mandrie, mentre i maschi adulti sono solitari o vagano in mandrie di scapoli.
La specie pascola nutrendosi di graminacee, erbe aromatiche e licheni. Lo Yak spezza il ghiaccio o la neve ghiacciata come fonte di acqua.
Durante la stagione riproduttiva, che inizia in settembre e dura diverse settimane, i maschi combattono per le femmine. Un unico piccolo viene partorito ogni anno e allevato dalla madre, diventando indipendente a circa un anno di età.
È una specie con status vulnerabile. In Asia è stato addomesticato per la lana, la carne, il latte, la pelle e come mezzo di trasporto.
A differenza dell’occhio umano che è capace di vedere attraverso i fotorecettori l’intera gamma di colori, quello dei nostri amici cani è in grado di distinguere soltanto una porzione dello spettro visibile e quindi soltanto alcuni colori; pertanto occorrerà da subito sfatare il mito della vista in bianco e nero di questi adorabili animali da compagnia. Di certo non vedranno il mondo così come lo vediamo noi, multicolorato e nitido. Loro possiedono due tipi di fotorecettori, quello per le tinte blu e quello per le tinte gialle, rosse e verdi che, molto probabilmente, vengono viste indistintamente in giallo e gli oggetti in modo più sbiadito.
Ma c’è di più; i cani in un certo senso sono anche tendenzialmente “presbiti”, in quanto vedono relativamente poco bene da vicino e dalla media distanza (ad esempio, ciò che una persona riesce ad osservare ad una distanza di circa 23 metri, un cane lo vede sfocato già a partire dai 6 metri) mentre ben diversa è la loro vista da lontano, decisamente più performante.
Ma non è tutto, i cani hanno gli occhi posizionati in modo da avere un campo visivo a 240 gradi, contro i nostri 180 gradi, con una zona di visione binoculare e due di visione monoculare di 80 gradi ciascuna. La loro visione periferica gli consente pertanto di percepire piccoli movimenti e con grande rapidità. Tuttavia, andrebbe altresì considerato che tali parametri presentano una certa variabilità a seconda della razza canina; ad esempio mentre un pastore tedesco, che ha occhi posti lateralmente, possiede un buon campo visivo a discapito della visione binoculare, un pechinese che ha occhi frontali, possiede invece un’ottima visione binoculare ma un ridotto campo visivo.
Che i cavi elettrici di potenza o di controllo siano tra i primi obiettivi dell’attività di rosicchiamento di topi e ratti è cosa ormai accertata da tempo, rimangono tuttavia oscure o solo parzialmente determinate le cause di tale comportamento.
La necessità di rosicchiare materiali che abbiano una certa consistenza per affilare i denti incisivi, a crescita continua, è solo il primo dei motivi degli attacchi ai rivestimenti dei conduttori. Il polietilene, materiale con cui vengono isolati la maggior parte dei cavi elettrici, è preferito in quanto tale, infatti anche in assenza di un qualsiasi campo elettromagnetico, generato dal cavo quando viene attraversato da una corrente, questo viene eroso lo stesso.
Il secondo, di natura più complessa, è quello che coinvolge le perturbazioni spaziali provocate dai campi elettrici e/o magnetici generati dai conduttori posti a differenze di potenziale o attraversati da correnti elettriche. Qualsiasi conduttore, infatti, produce un capo elettrico associato, che esiste anche quando nel conduttore non scorre alcuna corrente, contrariamente al campo magnetico concatenato che si genera solo quando si ha movimento di cariche; quando cioè nel conduttore circola corrente. In entrambe queste situazioni i roditori in generale, ed il Topolino delle case (Mus domesticus) in particolare, sembrano modificare il loro comportamento al punto da essere attratti dalle sorgenti di tali perturbazioni spaziali.
Non esistono a tutt’oggi evidenze sperimentali che provino la capacità di queste specie di “sentire” i campi elettromagnetici, unica spiegazione, anch’essa non dimostrata sperimentalmente, potrebbe essere quella basata sull’attrattività del materiale già delucidata, che induce l’esemplare a rosicchiare il rivestimento del conduttore sommata e rafforzata dalla sensazione di “formicolio” che l’animale è sicuramente in grado di percepire, esercitata dalla polarizzazione delle labbra e del pelo posti in questi campi di forze.
C'è chi preferisce abitare al primo o al secondo piano di un palazzo e c'è chi invece desidera scegliersi l'appartamento più in alto, magari al sesto o al settimo piano. L'albero di Castagno abita volentieri "nei piano di mezzo"; sui monti, che sono la loro casa, lo troviamo infatti fra i 400 e i 1.000 metri sopra il livello del mare. Gli "inquilini" di sotto sono le Viti, al piano di sopra vegetano i Faggi e all'ultimo abitano i Pini e i Larici. Tuttavia, dove il clima è ben caldo, il Castagno preferisce "scegliere" la sua casa più in alto: pertanto, sulle pendici dell'Etna, in Sicilia, si possono trovare alcuni esemplari anche anche ad altezze di 1.700 metri. Lì ad esempio esiste un famoso esemplare plurimillenario noto con il nome di "Castagno dei 100 cavalieri". Questo particolarissimo appellativo deriva da una leggenda dove si narra che sotto la sua vastissima chioma un giorno trovarono riparo 100 cavalieri sorpresi all'aperto da un furioso temporale. Il suo diametro misura ben 20 metri.
Ci ritroviamo spesso nel corso della nostra quotidianità a rincorrere con affanno l’inesorabile scorrere del tempo, avvertendo a volte un senso di frustrazione perché ci rendiamo conto di non essere abbastanza “veloci” per tenergli testa e perché vediamo i nostri sforzi e i continui sacrifici non concretizzarsi nell’immediato.
Come in ogni cosa esistono però delle eccezioni: persone a cui non interessa più di tanto essere al passo con il tempo, che vivono la vita così come viene senza tante pretese e senza minimamente affannarsi e a cui non interessa essere veloci; probabilmente sono anche quelle persone che “vivono più a lungo” e meglio. Loro magari si saranno sentiti pronunciare la seguente esclamazione: “sei lento come un bradipo”!
Ebbene, in natura il Bradipo è esattamente così a causa del suo lento metabolismo: riesce a dormire anche venti ore di seguito, interrompendo quel sonno solo quel poco che gli basta per consumare lentamente le foglie e i frutti che compongono la sua dieta e che digerisce con altrettanta lentezza. Esso infatti vive sugli alberi dell’America meridionale, spostandosi appena fra i rami e avventurarsi raramente sul terreno, dove si trova poco a suo agio; alla massima velocità raggiunge appena gli 0,16 chilometri orari. Ciò significherebbe che in una pseudogara di 100 metri, impiegherebbe circa 40 minuti per tagliare il traguardo.